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SI FA PRESTO A DIRE PROBABILITÀ (DI VITA EXTRATERRESTRE)


"Le dimensioni dell’universo indicano uno spreco colossale di materia e di spazio. È mai possibile che tutto questo materiale abbia prodotto la vita solamente su un pianeta mediocre come la Terra ? Per questa ragione tendenzialmente gli astrofisici, pur con estrema cautela, ritengono che esistano altri mondi abitati. La ricerca di questi mondi si rivela assai ardua e forse solamente un colpo di fortuna potrà confermare i nostri pregiudizi".

Ciò è quanto scrisse su "La Stampa" il fisico Tullio Regge il 14 gennaio 1980.

Da allora sono passati quasi trent’anni e il desiderio dell’uomo di conoscere se è solo nell’universo non è stato ancora soddisfatto. Eppure l’astronomia, l’astrofisica e l’esobiologia (cioè la biologia degli organismi viventi al di fuori del nostro pianeta) hanno fatto passi da gigante, facendo progredire le nostre conoscenze sulla possibilità che esistano altri mondi abitati.

Al crescente interesse per la vita extraterrestre ha fatto seguito una quantità sempre più grande di numeri, dati e statistiche, sulla base della convinzione (errata) che il numero è sicuro, mentre la parola è ambigua. A tal proposito Camille M. Carlisle, nell’articolo "La corsa per trovare terre aliene" (pubblicato su "Le Stelle" di marzo 2009) tratta della necessità di tenere sotto osservazione stelle circondate da dischi abbastanza massicci. Ciò in quanto da quei dischi potrebbero formarsi pianeti di tipo terrestre, e su questi potrebbe svilupparsi la vita.

In particolare Carlisle, riportando il pensiero di Geoff Marcy (noto cacciatore di esopianeti dell’Università della California a Berkeley), scrive:
"Altre osservazioni di stelle giovani mostrano però che "circa l'80% ha dischi sufficientemente massicci da formare pianeti di tipo terrestre", afferma Marcy. "È quindi probabile - conclude - che l’80% di tutte le stelle abbia pianeti rocciosi".

Questa affermazione induce il lettore a pensare che è cosa ragionevole e razionale credere all’esistenza di altri mondi abitati. In realtà oggi troppe persone usano il termine "probabilità" in maniera azzardata se non addirittura fuorviante.

Se osserviamo 100 stelle e scopriamo che 80 di esse sono circondate da dischi massicci, possiamo soltanto affermare che, rispetto alla variabile "disco intorno alla stella" (che ha 2 modalità: "disco massiccio" e "disco non massiccio"):

  • la frequenza assoluta delle stelle con disco massiccio è 80; la frequenza relativa è 0,8 (= 80/100); la frequenza percentuale è 80% (= 0,8x100);
  • la frequenza assoluta delle stelle con disco non massiccio è 20; la frequenza relativa è 0,2 (= 20/100); la frequenza percentuale è 20% (= 0,2x100).

Altro non possiamo dire. L’80% è una frequenza, non una probabilità. Se potessimo far tendere a più infinito il numero di prove, la frequenza sarebbe una buona approssimazione della probabilità. Con una moneta è facile: facciamo 10 milioni di lanci e, se otteniamo testa circa 5 milioni di volte, diciamo che la sua probabilità di uscita è 50%. Ma con le stelle? Potremo mai sottoporre ad analisi 10 milioni di stelle? E se anche ci dovessimo riuscire, cosa diremo ai nostri lettori se solo 1 milione di esse fosse circondata da dischi massicci? Questo è un evento che potrebbe benissimo verificarsi: infatti se lanciassimo solo 10 volte una moneta, potremmo ottenere 8 teste, con una frequenza dell’80% (invece che quella reale, del 50%).

D’altronde, effettuare analisi censuarie, cioè su tutta la popolazione di riferimento, costa molto tempo e moltissimo denaro. Per questo motivo la maggior parte delle indagini statistiche sono campionarie, nel senso che si limitano ad indagare un sottoinsieme (più o meno piccolo) della popolazione di riferimento.

Ma come deve essere scelto il campione affinché i risultati dell’indagine campionaria siano estendibili alla popolazione di riferimento? Deve semplicemente trattarsi di un campione casuale, cioè i soggetti che comporranno il campione devono essere estratti a caso, pescando da un’urna. Ad esempio, se volessi conoscere l’altezza media degli italiani, dovrei mettere in un’urna circa 57 milioni di nomi e cognomi (cioè quelli di tutti gli italiani) e poi pescarne un certo numero.

È chiaro che, se dal mio campione casuale risultasse un’altezza media di 175 cm, ciò non significherebbe che l’altezza media degli italiani è 175 cm, poiché comunque non è stata sottoposta ad indagine l’intera popolazione. Tuttavia potrò dire, ad esempio, che su 100 campioni estratti dalla popolazione, 95 presentano un’altezza media compresa fra 173 e 177 cm, che è un buon risultato, se si considera la quantità di tempo e denaro risparmiata rispetto all’indagine censuaria.

Purtroppo il campione di stelle preselezionato per la missione Kepler, che ha come obiettivo l’individuazione di esopianeti, non è casuale. A tal proposito Carlisle scrive "gli astronomi hanno già passato diversi anni a osservare e classificare 3 milioni di stelle nel campo di Kepler", spiega il responsabile scientifico della missione William Borucki (Nasa / Ames Research Center), "per scegliere le migliori da studiare "".

Se si vuole dire qualcosa sull’esistenza, nell’intero Universo, di altri mondi abitati, occorre formare un campione casuale di stelle: le stelle quindi non devono essere le migliori, ma solo quelle che sono state estratte dall’urna.

Il campione di stelle di Kepler assomiglia molto ad un’indagine fatta tra le persone che abitano nel mio condominio, che io ho scelto perché non ho voglia di muovermi da casa (estraendo casualmente potrei dover intervistare una persona in Val D’Aosta, una a Palermo, poi una a Trento e magari un’altra a Roma). Non rileva ai fini statistici il motivo (più o meno valido) per cui il campione è stato formato in un certo modo; l’unica cosa importante è se è casuale oppure non lo è. In quest’ultimo caso nulla potremo dire in merito all’esistenza di vita extraterrestre nel nostro Universo.

Se avremo il "colpo di fortuna" di Tullio Regge (citato all’inizio dell’articolo) e troveremo la vita su un esopianeta del campione di Kepler, potrebbe benissimo essere l’unico altro posto di tutto l’universo ad ospitare la vita oltre al pianeta Terra.

3 commenti

Alberto Conti ha detto...

Ovviamente per poter massimizzare la probabilita' di trovare pianeti simili a quelli terresti e quindi giustificare il costo di una missione come Kepler, si e' ovviamente cercato un campo molto denso di stelle che si suppose abbiano buone probabilita' di avere pianeti. E' ovvio che cosi' facendo si modifica "a priori" la legge probabilistica che determina la probabilita' di pianeti attorno a tutte le stelle. Tuttavia, come ben sai, Kepler usa solamente uno dei metodi di ricerca con i quali si possono determinare i pianeti attorno a stelle della nostra galassia. Altri metodi (che sono ortogonali nello spazio delle probabilita' a quello usato da Kepler) ci aiuteranno a capire piu' a fondo quali sono in realta' le limitazioni del campione selezionato da Kepler.

Indipendentemente da questo ragionamento, tuttavia, Kepler ha la possibilita' di dirci se i pianeti di tipo terrestre, o quanto meno non giganti, sono una rarita' in tipi di stelle come la nostra oppure sono la norma. Una volta avuta una risposta si dovra' prendere il risultato di Kepler e "amalgamarlo" per cosi' dire con tutti gli altri risultati e soprattuto con i modelli. Solo allora avremo un'idea del passo successivo.

Personalmente credo che la vita nell'universo sia come la "graminia", e quindi spero che Kepler ci aiuti a capire dove dobbiamo indirizzare i nostri sforzi.

Anonimo ha detto...

Equazione di Drake, funziona come una serie di filtri, per arrivare al numero di pianeti abitati partendo dal numero di stelle nella nostra galassia. Da ricalcolare a ogni progresso astronomico o biologico.
Ciao da Enrico

Walter Caputo ha detto...

Grazie Alberto per il tuo interessante contributo, molto utile per completare l'articolo.
Grazie Enrico per il tuo commento. Purtroppo anche l'equazione di Drake non è in grado di determinare la probabilità di vita extraterrestre poiché consiste nel prodotto di una serie di frequenze e quindi non è altro che una stima di una frequenza, cosa ben diversa dalla probabilità che un determinato evento si verifichi.
Walter