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VIETATO FARE PROPAGANDA PER L'ASTENSIONE AL VOTO... ANZI NO!

Da alcuni giorni, in prossimità del Referendum abrogativo dell'8-9 giugno 2025, circola in rete questo vecchio articolo de La Stampa. Ma sarà realmente così?



NON È PIÙ COSì: IL DIRITTO DI ASTENERSI AL VOTO E DI FARE PROPAGANDA È PERMESSO PER LEGGE
 

La libertà di astenersi: la sentenza n. 47/1993 della Corte Costituzionale e la svolta nei referendum italiani

Fino al 1993, in Italia, invitare i cittadini ad astenersi dal voto in un referendum era non solo disapprovato, ma anche sanzionato penalmente. In particolare, l’articolo 98 del Testo Unico del 1957 vietava espressamente ogni forma di propaganda in favore dell’astensione, una restrizione che colpiva con particolare severità i pubblici ufficiali, gli incaricati di pubblico servizio e tutti coloro che, per la loro funzione, avessero un dovere istituzionale di neutralità o imparzialità. La ratio della norma era semplice: proteggere l’istituto referendario da manipolazioni e garantire la massima partecipazione possibile alla consultazione popolare. Tuttavia, questa impostazione entrava in conflitto con un altro pilastro fondamentale dell’ordinamento democratico: la libertà di espressione.

La svolta arrivò con la sentenza n. 47 della Corte Costituzionale del 1993, una decisione destinata a cambiare profondamente il rapporto tra cittadini, istituzioni e strumenti di democrazia diretta. La Corte fu chiamata a valutare la legittimità costituzionale dell’articolo 98 del Testo Unico, nella parte in cui vietava la propaganda per l’astensione. La decisione fu netta: quella norma era incostituzionale.

Il ragionamento della Corte

Secondo la Consulta, vietare la propaganda per l’astensione rappresentava una violazione del diritto alla libertà di manifestazione del pensiero, tutelato dall’articolo 21 della Costituzione, e del diritto di partecipazione politica, sancito dagli articoli 48 e 49. In particolare, la Corte osservò che anche la scelta di non partecipare a un referendum costituisce una forma di espressione politica: un messaggio, un'opinione, una presa di posizione. Se votare "sì" o "no" è legittimo, lo è altrettanto scegliere deliberatamente di non recarsi alle urne, specialmente in un sistema che prevede un quorum di validità per la consultazione.

L’astensione, in questo senso, può essere usata come strumento politico: ad esempio, se un gruppo di cittadini ritiene che il quesito referendario sia mal posto, manipolativo o politicamente strumentale, ha tutto il diritto di opporsi non partecipando al voto, e cercando di far mancare il quorum del 50% più uno degli aventi diritto.

Le implicazioni democratiche

Con la sentenza n. 47/1993, l’Italia ha riconosciuto che la democrazia non si esaurisce nella partecipazione attiva, ma comprende anche il diritto all’astensione consapevole. Questa forma di espressione non può essere né criminalizzata né censurata. Al contrario, in un sistema aperto e pluralista, ogni cittadino ha il diritto di sostenere pubblicamente le proprie opinioni politiche, incluse quelle che mirano a delegittimare uno strumento istituzionale attraverso l'astensione.

Il principio affermato dalla Corte ha avuto importanti conseguenze anche sul piano della comunicazione politica. Oggi è perfettamente legale – e spesso strategicamente rilevante – che esponenti politici, intellettuali, giornalisti o comuni cittadini invitino all’astensione in occasione di un referendum. Non si tratta di boicottaggio illegittimo, ma di legittima azione politica, espressione di dissenso o di critica, spesso parte integrante del dibattito pubblico.

Un esempio concreto: l’uso politico dell’astensione

Negli anni successivi alla sentenza del 1993, numerosi partiti e movimenti hanno fatto ricorso alla strategia dell’astensione per far fallire un referendum ritenuto scomodo. In alcuni casi, questa tattica si è rivelata vincente, poiché ha impedito il raggiungimento del quorum necessario, facendo decadere la consultazione. Anche questa è una forma di partecipazione, per quanto paradossale possa sembrare: non partecipare può essere una scelta attiva, e non una forma di indifferenza.

Il superamento del divieto di propaganda per l’astensione ha dunque segnato una maturazione del sistema democratico italiano, che ha dimostrato di saper fare spazio a opinioni minoritarie, a strategie non convenzionali e a forme di dissenso più sofisticate.

Un equilibrio tra diritti e istituzioni

Resta naturalmente il problema di preservare il valore del referendum come strumento di democrazia diretta. Se l’astensione diventa una pratica sistematica, il rischio è che la partecipazione popolare venga svuotata di senso, e che i referendum non riescano più a incidere sulla vita politica del Paese. Ma il compito di contrastare l’astensionismo non può essere affidato al diritto penale: deve essere affrontato sul piano politico, culturale, educativo.

Le istituzioni, i partiti e la società civile devono impegnarsi per restituire centralità al dibattito, chiarire i contenuti dei quesiti referendari e motivare la partecipazione consapevole. Ma sempre nel rispetto di chi, altrettanto consapevolmente, sceglie di non partecipare.

PER RIASSUMERE

La sentenza n. 47/1993 della Corte Costituzionale ha rappresentato una tappa fondamentale nell’evoluzione del diritto costituzionale italiano. Abolendo il divieto di propaganda per l’astensione nei referendum, la Corte ha riaffermato un principio essenziale: in democrazia, anche il silenzio può essere una voce. E va ascoltata.



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