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Disturbi alimentari: supportare chi ne soffre con empatia

 


I disturbi dell’alimentazione e della nutrizione (o DCA) rappresentano condizioni psicopatologiche complesse, classificate nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5-TR) tra i disturbi mentali. Tra i principali si annoverano anoressia nervosa, bulimia nervosa, disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder), oltre ad altri disturbi specificati e non specificati.

Queste patologie influenzano in modo significativo la salute fisica, psicologica e relazionale di chi ne è affetto, e presentano un’elevata comorbilità con ansia, depressione, disturbi ossessivo-compulsivi e disturbi da trauma. Non si tratta semplicemente di “problemi col cibo”, ma di disagi profondi, spesso legati a fattori biologici, psicosociali e ambientali, che richiedono un approccio clinico integrato.

Comprendere prima di intervenire: una questione di conoscenza e rispetto

I DCA non sono una scelta volontaria, né una manifestazione di superficialità. Ricerche indicano che la loro insorgenza può essere associata a molteplici fattori, tra cui:

  • predisposizione genetica e neurobiologica (alterazioni nei circuiti dopaminergici e serotoninergici);
  • eventi traumatici o stressanti (traumi infantili, bullismo, lutti);
  • fattori socioculturali, come la pressione verso l’ideale di magrezza.

Comportamenti come restrizione alimentare, abbuffate, condotte compensatorie (vomito, uso di lassativi), esercizio fisico compulsivo non sono capricci, ma sintomi clinici. Comprendere ciò aiuta a ridurre lo stigma e favorisce un dialogo più empatico e utile.

Comunicazione: un linguaggio che cura

Numerosi studi in ambito psicologico evidenziano come il linguaggio utilizzato da familiari e amici possa influenzare il decorso del disturbo. Una comunicazione accogliente e non giudicante può ridurre la chiusura relazionale e facilitare l’accesso alle cure.

Frasi utili potrebbero includere:

  • "Sono qui per te, se vuoi parlare."
  • "Mi interessa come ti senti, non solo cosa mangi."
  • "C’è qualcosa che posso fare per aiutarti oggi?"

Da evitare, invece:

  • "Ma sembri in salute."
  • "Perché non mangi di più?"
  • "Ti rendi conto del male che ti fai?"

Frasi incentrate su peso, aspetto fisico o comportamenti alimentari possono involontariamente rinforzare le cognizioni distorte tipiche di questi disturbi (come l’iperidentificazione con il corpo).

Essere una presenza sicura, non un controllore

Il modello dell’alleanza terapeutica sottolinea l’importanza della fiducia e della relazione. Il controllo alimentare da parte di terzi, anche se ben intenzionato, può essere vissuto come intrusivo o punitivo, aumentando la resistenza al cambiamento.

Un atteggiamento più utile consiste nell’offrire presenza e disponibilità, ad esempio condividendo un pasto in modo sereno, o offrendo supporto nei momenti di vulnerabilità, senza pressioni.

Incoraggiare il supporto professionale

Il trattamento dei disturbi dell’alimentazione richiede un approccio multidisciplinare e altamente specializzato. Fondamentale è anche il monitoraggio medico e nutrizionale, indispensabile per prevenire e trattare complicanze organiche potenzialmente gravi, come squilibri elettrolitici, amenorrea o osteoporosi. In alcuni casi selezionati, può essere indicato un intervento farmacologico, sempre sotto la supervisione di uno specialista. Promuovere il coinvolgimento di uno psicologo specializzato in disturbi alimentari è un passo cruciale per garantire un intervento mirato, competente e personalizzato. Offrirsi di accompagnare una persona cara a un primo colloquio o aiutarla a cercare un centro di riferimento non è un segno di distacco, ma un gesto concreto di vicinanza e responsabilità.

Accettare che il percorso non è lineare

Il decorso dei DCA è spesso cronico-recidivante. Le ricadute non sono segno di fallimento, ma fanno parte della fisiologia del processo di guarigione, secondo quanto evidenziato dalla letteratura clinica.

Chi supporta una persona con DCA deve esercitare pazienza, coerenza emotiva e assenza di giudizio, valori che favoriscono la resilienza e la motivazione al trattamento.

Prendersi cura anche di sé

Il caregiver burden, ovvero il carico emotivo di chi supporta una persona con un disturbo cronico, è un fenomeno ben documentato. Ignorarlo può portare a burnout, ansia e senso di impotenza.

È essenziale che familiari e amici mantengano spazi di autoregolazione emotiva, supporto psicologico se necessario, e occasioni di benessere personale. Un equilibrio sano rende possibile offrire un aiuto autentico e duraturo.

In sintesi

Supportare una persona con disturbi alimentari richiede informazione, consapevolezza e umanità, ma anche la comprensione che il ruolo di chi aiuta non è “curare”, bensì esserci in modo costante, rispettoso e preparato. La scienza e la relazione umana, insieme, possono costituire una base solida per il recupero.

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