L’illusoria egemonia culturale della sinistra italiana
Per decenni, in Italia, si è radicata la convinzione che la sinistra detenga il monopolio della cultura e del sapere intellettuale. Una narrazione che ha dipinto gli intellettuali di sinistra come i soli depositari di profondità morale, raffinatezza e superiorità culturale, mentre la destra veniva relegata a un ruolo subalterno, priva di voci autorevoli o degne di nota.
Questa credenza, spesso ripetuta come un mantra in certi salotti radical-chic, ha contribuito a creare un complesso di inferiorità nella destra e un senso di superiorità nella sinistra.
Eppure, si tratta di un’illusione che, negli ultimi anni, si sta progressivamente sgretolando.
Le radici di questa percezione affondano nel dopoguerra, quando il Partito Comunista Italiano, ispirandosi alla teoria dell’egemonia culturale di Antonio Gramsci, investì massicciamente nella conquista del consenso attraverso la società civile: università, editoria, cinema e media. La sinistra seppe costruire una rete influente, soprattutto negli ambienti intellettuali urbani e accademici. Figure come Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino o Alberto Asor Rosa divennero icone, mentre la cultura di destra – spesso associata al fascismo o al conservatorismo – fu emarginata o ridotta a cliché.
Tuttavia, questa “egemonia” è stata largamente mitizzata. Come hanno sottolineato critici da destra e persino da sinistra, le istituzioni culturali nel dopoguerra erano spesso controllate dalla Democrazia Cristiana, non dai comunisti. La Rai, la scuola e gran parte della stampa moderata erano in mani centriste. La sinistra conquistò spazi culturali stando all’opposizione, non grazie a un dominio assoluto, ma attraverso un lavoro capillare. E, soprattutto, non mancavano voci di destra: da Giovanni Gentile a Ezra Pound, da Julius Evola a figure contemporanee come Marcello Veneziani, Luca Beatrice, Giordano Bruno Guerri o Vittorio Sgarbi. Autori come Giovannino Guareschi (il più venduto italiano nel mondo con Don Camillo) o Giuseppe Tomasi di Lampedusa con Il Gattopardo dimostrano una tradizione conservatrice ricca e popolare.
Oggi, questa illusione si sta dissolvendo per diversi motivi. Innanzitutto, la sinistra ha perso contatto con la realtà sociale: distaccata dalle classi popolari, rifugiata in temi elitari come i diritti civili astratti o il politicamente corretto, ha abbandonato il terreno del lavoro, della sicurezza e dell’identità nazionale. Anche la sinistra ha spesso perseguito “propri interessi”, occupando poltrone senza rinnovare idee. Il risultato? Una crisi di consenso elettorale e culturale, con giovani e ceti medi che non si riconoscono più in un progressismo percepito come snob e ipocrita.
Va sottolineato, però, che la cultura non è né di destra né di sinistra. Esistono intellettuali centristi o moderati che non si sono mai schierati con il sistema, contribuendo in maniera indipendente al dibattito culturale. Esempi storici includono Indro Montanelli, Natalino Sapegno, Piero Gobetti o Giorgio Bassani, figure che hanno mantenuto autonomia critica senza farsi strumentalizzare da schieramenti politici, e che dimostrano come la cultura possa essere libera e pluralista.
La credenza sinistra-monopolio della cultura era un’arma ideologica: serviva a delegittimare l’avversario, dipingendolo come “incivile” o “ignorante”. Ma la realtà è plurale: la cultura non ha padroni. La sinistra, aggrappandosi a un’illusione di superiorità, ha finito per isolarsi. La destra, liberandosene, sta riconquistando spazio. E l’Italia, finalmente, respira un dibattito più aperto e meno asfissiante. L’illusione si sgretola: non perché la destra “occupi” posti, ma perché le idee vincono quando parlano alla gente, non ai salotti.
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