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LA VERITA', VI PREGO, SULLO SMART WORKING

 La pandemia non ci ha dato il tempo di pensare allo smart working: era l'alternativa a fermare ogni attività produttiva. Il quasi (si spera!) post-pandemia ci consente un po' più tempo per ragionare sull'utilità di questa forma di lavoro a distanza. Eppure non molti lo stanno facendo, visto l'attuale dibattito in corso, che vede - come al solito - schieramenti opposti, entrambi fondati su fragili basi. C'è chi vede lo smart working come un'eccezione, di conseguenza al termine dell'emergenza occorre necessariamente tornare al cosiddetto "lavoro normale". E c'è chi vede lo smart working come un'occasione per migliorare l'organizzazione del lavoro, un'opportunità sganciata dall'eccezionalità dell'emergenza. E, naturalmente, ci sono lavoratori a cui piace ed altri che lo detestano. Ma c'è una cosa che accomuna tutti, sia i lavoratori che i decisori politici, sia il governo che i sindacati, così come gli opinionisti, i giornalisti e - addirittura - chiunque si ritenga in grado di commentare il tema su un qualunque social network. Si tratta del modo fondamentalmente errato con cui si sta affrontando la questione.

Occorre infatti pensare non solo allo smart working, ma a tutto ciò che vi è intorno: la famiglia, la casa, il quartiere, le attività commerciali, le città e le infrastrutture. Bisogna inoltre riflettere non soltanto sul presente, in cui tutti siamo immersi, ma anche sul passato - cioè sui cambiamenti del lavoro nel tempo - e nondimeno sul futuro, quindi sul ruolo del lavoro a distanza in un'epoca in cui, ad esempio, il cambiamento climatico avrà ancor più (rispetto ad oggi) ridotto la qualità della nostra vita. E' proprio ciò che fa Domenico De Masi nel libro: "Smart working - La rivoluzione del lavoro intelligente", pubblicato da Marsilio nel mese di ottobre 2020. 

Leggevo i libri di Domenico De Masi, già 25 anni fa, quando cercavo di capire quale potesse essere il futuro del lavoro, e quale direzione mi convenisse prendere. E già allora, su quei libri futuristici, avevo capito che la questione del lavoro era molto più complessa di quanto in genere non si creda. Certe "rivoluzioni", col senno di poi, possono rivelarsi un fuoco di paglia, mentre altre, su cui magari si nutrivano forti dubbi, talvolta alimentano un tale fuoco di innovazione, che sono destinate a cambiare completamente il futuro. 

De Masi ci ricorda, innanzitutto, che il luogo della vita domestica è stato anche il luogo di lavoro dal XII secolo fino alla fine del '700. La casa coincideva con la bottega - pensate alla bottega artigiana della Firenze rinascimentale - ed era costituita dalle stanze per dormire, cucinare e mangiare e - in termini moderni - dal magazzino materie prime, dalla produzione e dal magazzino prodotti finiti. Vogliamo invece pensare alla Grecia e a Roma classica? A quell'epoca la condizione salariale era considerata indegna per gli uomini liberi e, scrive De Masi, "uno schiavo equivaleva a nient'altro che a un elettrodomestico dei giorni nostri". Mentre oggi per noi "il lavoro rappresenta un valore supremo". Quindi la gerarchia dei valori ha attraversato notevoli trasformazioni; d'altronde oggi noi siamo prigionieri di un modello fatto di ricchezza, potere e possesso, mentre un cittadino greco aveva altre priorità: "introspezione, amicizia, amore, gioco, bellezza e convivialità". 

Così, se all'epoca delle botteghe, lavoro e vita erano uniti, il modo di produrre industrialmente li ha separati. Mentre invece lo smart working (ovviamente solo per coloro che svolgono mansioni "telelavorabili") riunisce il luogo di lavoro con quello dell'esistenza, riportandoci non ad un'epoca, ma ad una dimensione pre-rivoluzione industriale, quando le persone vivevano e lavoravano nella stessa comunità, e in quella comunità stringevano rapporti. 

Il modello della fabbrica ha portato tutti in fabbrica, anche quegli impiegati per i quali non era strettamente necessario. Per loro venne ricalcato il modello minuziosamente organizzato degli operai, che pretendeva una presenza in un unico luogo per esercitare un controllo molto stretto. Così, più si divide, più si organizza e si parcellizza il lavoro e più il lavoratore finisce per "appartenere" alla professione che ha scelto. Poi vennero il taylorismo, il fordismo ed avevano anche nobili scopi: ridurre la fatica, ridurre la necessità di pensare, aumentare gli stipendi e ridurre la giornata lavorativa aumentando il tempo libero. 

Ma ormai anche quell'epoca è terminata. L'attuale società post-industriale non si basa più sulla produzione in grande serie di beni materiali, "ma sulla produzione di beni immateriali: servizi, informazioni, simboli, valori, estetica". E' su queste basi che occorre ripensare allo smart working, anche come "rivoluzione" simile a quella industriale, ma poggiata su basi diverse: 

- ridurre la fatica (per l'impiegato) basandosi non su un macchinario, ma su una tecnologia distribuita e presente a casa propria; 

- aumentare la necessità di pensare per elevare e rendere migliore il lavoro (anche tramite l'autonomia organizzativa, fondata più sugli obiettivi che sulle procedure);

- aumentare il tempo libero tramite la riduzione degli spostamenti e quindi di conseguenza, un minor tempo totale di lavoro ed una maggior retribuzione oraria (anche se quella complessiva dovesse rimanere costante). 

Walter Caputo


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