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COMUNICARE LA SCIENZA


Perché la scienza risulta, spesso, difficile da comprendere?
“Il nostro successo come comunicatori non dipende da quello che il messaggio fa al pubblico, ma cosa il pubblico fa con il nostro messaggio”.
Già, perché comunicare non significa solamente riferire: è piuttosto un modo di porsi di fronte a chi ascolta.

Leggendo il manuale “Comunicare la scienza-Kit di sopravvivenza per ricercatori” di Giovanni Carrada si scopre che non sempre il nostro entusiasmo di ricercatori e di persone di scienza coincide con l’interesse del lettore.

Ma allora come posso condividere il mio entusiasmo scientifico con la comunità?
Comunicando al suo livello, cercando di parlare in maniera semplice e avendo la pazienza di spiegare concetti difficili ad un pubblico che non sa ma vuole sapere.
“Qualunque sia il mezzo, il formato, lo scopo, il contenuto, comunicare la scienza al pubblico vuol dire saperla trasformare in una storia”.

È importante conoscere chi ci ascolta, mai dare nulla per scontato, mai pensare che noi siamo migliori del nostro lettore solo perché sappiamo di più.

Abbiamo affrontato un percorso di scienza che altri non hanno mai affrontato e condividere il nostro sapere con gli altri ci permetterà di avere un futuro migliore.
Provate a pensare se i grandi scienziati del passato si fossero limitati a dialogare esclusivamente fra loro?

Per fortuna hanno trovato un modo per renderci partecipi delle loro scoperte.


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Giovanni Carrada
“Comunicare la scienza-Kit di sopravvivenza per ricercatori”
Sironi editore
Maggio 2005 - pag.155




4 commenti

Daniela ha detto...

La sensazione è questo manuale (che ho sfogliato a dire il vero piuttosto rapidamente), così come di altri pubblicati in Italia, parta dal presupposto che il giornalista è sempre uno "che ne sa meno di scienza" quando ormai, e sempre più spesso man mano che si affacciano a questo mestiere le nuove generazioni laureate e masterizzate, non è affatto così. Il giornalista ne sa meno del ricercatore su quello specifico pezzetto di scienza, ma se è un giornalista scientifico serio spesso sa come destreggiarsi tra le fonti e come fare confronti e critiche (che spesso indispongono il ricercatore, che amerebbe avere davanti un megafono, non un interlocutore). Bisognerebbe insegnare agli scienziati a collaborare (nel senso di "lavorare con") con i migliori su un piano paritario per ottenere un buon risultato finale che soddisfi le necessità della ricerca ma anche la funzione sociale del giornalismo, che è quella di informare, ma anche, come dicono gli anglosassoni, di fungere da "watchdog" della scienza.

Alice Della Puppa ha detto...

Cara Daniela,
il volume di cui parliamo è comunque di qualche anno fa ed è il risultato degli insegnamenti che Carrada dà agli Studenti del Master in Comunicazione della Scienza a Trieste (SISSA).
Da scienziata e da comunicatrice ti dico che è un buon testo di partenza proprio per chi fa scienza e vuole comunicarla cioè farla conoscere ai più.
Nella mia breve esperienza ho visto che molto spesso c'è confusione proprio su cosa vuol dire fare comunicazione scientifica (motivo per cui io preferisco "divulgazione" o all'inglese "vulgarisation") e fare il giornalista scientifico, che sono due cose completamente diverse.

Marco ha detto...

Io sono tra quelli che la scienza vogliono provare a conoscerla (impararla non mi piace), sono quindi tra gli "utenti finali", tra coloro che ricevono le informazioni. Posso dire che l'approccio consigliato (almeno da quello che leggo in questo post) mi sembra quello giusto, o comunque quello che può portare maggiori risultati, se per risultato si intende il più ampio circolo delle informazioni.
Il giornalista scientifico (preferisco divulgatore) dovrebbe sapere che gli argomenti che affronta non sono proprio i più ricercati dalla media degli utenti e che quindi, se ha la "fortuna" che qualche lettore si soffermi su di un suo articolo, deve prima di tutto sperare che comprenda quello che sta leggendo e che magari si alzi soddisfatto di aver appreso qualcosa di nuovo. Il linguaggio usato è quindi fondamentale come pure l'atteggiamento che si assume verso chi è lì per apprendere.
Mi piace l'idea di "trasformare" il freddo elenco di concetti scientifici in una storia che incuriosisca e che come lieto fine abbia la comprensione delle informazioni e dei concetti. Non metto in dubbio la profonda preparazione del giornalista scientifico, ma di persone preparate ce ne sono (ricercatori, scienziati ...); quello di cui l'utente finale ha bisogno è della capacità di divulgare, un'arte che pochi hanno. L'utente medio non legge testi, riviste o post scientifici perchè "da grande" vuole fare lo scenziato, legge perchè è incuriosito, perchè ha bisogno di quel minimo di informazioni necessarie per soddisfare il suo bisogno di conoscenza. Se poi "da grande" volesse fare lo scenziato...beh, allora è il caso non che non si limiti semplicemente a leggere, ma che studi, e questo è tutto un altro paio di maniche.
Un salutone
Marco

Silvia C. ha detto...

Gentile Daniela io non credo che una laurea in materie scientifiche sia il punto di partenza per essere un buon comunicatore di scienza, come non credo che i giornalisti di oggi "ne sanno meno si scienza".
Comunicare è far arrivare il nostro messaggio in modo corretto a qualcuno che non conosce l'argomento di cui si sta parlando, rendendolo capace di farsi una propria opinione.
Francamente penso che la disponibilità alla collaborazione sia indipendente dal titolo di studio o dal lavoro che si svolge;dipende da ognuno di noi da quello che vogliamo mettere in gioco per il bene comune, se necessario anche il nostro sapere.