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OLTRE LA FRONTIERA QUANTISTICA: UNA STORIA APPASSIONANTE

(parte undicesima)

11. – Il modello atomico
.

Di problemi da risolvere, volendo, c’è n’erano a non finire, ma tutte applicazioni risolvibili o semplici esercizi. Il problema del modello atomico era però ancora un “problema”, pure grosso.

Sia nel 1985 che nel 1992, durante due differenti conferenze mi venne fatta, anche se con toni molto diversi, la stessa imbarazzante domanda. La prima volta mi venne chiesto se una sorgente dipolare poteva in qualche modo giustificare il modello atomico; io risposi che a quello stadio del lavoro, il modello permetteva di comprendere la natura di un fotone e di calcolare teoricamente solo ("solo" … si fa per dire) il valore della costante di struttura fine e conseguentemente la costante di Planck. Sette anni dopo però, quando ero decisamente più avanti nel lavoro di ricerca ma non ero ancora riuscito a pensare a qualcosa di ragionevole che mi permettesse di giustificare la struttura di un atomo. Un dottorando, al termine di una mia conferenza, con una smorfia beffarda disse: “mi scusi, … che giustificazione darebbe lei al fatto che se le sorgenti di dipolo localizzano un fotone per qualunque valore di distanza d’interazione tra particelle di segno opposto, allora nucleo ed elettrone dovendo emettere energia con continuità non potrebbero formare atomi stabili?” Non avevo alcuna idea a riguardo. Più che rispondere “non so” non potevo.



Una soluzione al problema arrivò molti anni dopo. Nel 2004 mi contattò via e-mail un avvocato di Trieste, Ugo Fabbri, un pensatore appassionato di fisica. Aveva trovato un mio indirizzo e-mail sul web. Da alcuni anni stava lavorando a delle sue idee sull'origine e sulla struttura degli atomi e non essendo del mestiere, voleva avere qualche buon consiglio. Quando mi presentò il lavoro, ad una prima lettura mi sembrò più un elogio alla metafisica. Molte descrizioni, poca matematica, un po’ di geometria e molte inesattezze rispetto alle comuni conoscenze della fisica. La cosa che mi colpì, fu il tentativo di dare una giustificazione al valore della costante di struttura fine: era il mio campo. Inizialmente pensai che il mio compito si esaurisse nel suggerirgli un metodo da seguire, delle correzioni, e quali aspetti trattati potevano avere un futuro. Però non era questo che Ugo voleva. Dopo uno scambio di e-mail compresi che Ugo avrebbe voluto coinvolgermi nel suo lavoro e soprattutto convincermi della
bontà delle sue idee. Mi convinse solo a contattare Giuseppe Basile, un ricercatore dell'Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica di Torino che aveva già precedentemente contattato. Accettai. Con Giuseppe ci fu subito feeling e mi feci facilmente convincere che in quelle note poteva nascondersi qualcosa di interessante. La presi con comodo, ma a dicembre del 2005 avevo terminato. Un paio di cose sembravano interessanti, nessuna delle due era formalizzata in termini matematici accettabili, in entrambe comparivano dei calcoli privi di un’adeguata introduzione ma sufficientemente espliciti. Mi accorsi che certi ragionamenti fatti sui livelli atomici utilizzavano la geometria e che certe formule non erano altro che applicazioni numerologiche del teorema di Pitagora. Queste riproducevano alcuni risultati tipicamente relativistici per un elettrone orbitale. Sebbene uno dei punti fondamentali degli scritti di Ugo fosse l'assunzione a priori del valore di 1/137 come esatto, quindi di 137 come reciproco della costante di struttura fine, assunzione assolutamente in contrasto con le teorie standard, con i risultati ottenuti per via sperimentale e con quelli ottenuti da me teoricamente, c'era comunque una logica. Mi incuriosì il fatto che il cosiddetto fattore relativistico "beta", dato dal rapporto tra velocità di una particella e la velocità della luce, per l’elettrone orbitale fondamentale di un atomo di idrogeno, Ugo l’aveva posto proprio uguale alla costante di struttura fine. Non riuscivo a capirne il motivo. Cercando di comprendere i suoi ragionamenti, riflettei su quanto sia Ugo che Giuseppe asserivano. Assumendo come modello esemplificativo l'atomo di Bohr, nel quale gli elettroni ruotano intorno al nucleo su orbite definite, un po’ come i pianeti intorno al Sole, non c'erano grandi problemi, introducendo però l'ipotesi ondulatoria di Louis de Broglie e passando al modello di Schroedinger, l’elettrone poteva restare sulla stessa orbita solo se l'onda che lo descrive inizia e conclude un certo numero di cicli raccordandosi sempre in uno stesso punto. L’orbita atomica deve perciò contenere un numero intero di lunghezze d’onda, esattamente come la corda vibrante di una chitarra. Se così non fosse, l'onda non sarebbe stazionaria e ciò porterebbe ad una perdita di energia dell’elettrone e ad una instabilità dell'atomo. Scegliendo per esempio l’orbita fondamentale di Bohr per l’atomo di idrogeno, il rapporto tra la circonferenza dell'orbita e la lunghezza d'onda di un elettrone a riposo, detta lunghezza Compton, è proprio uguale al reciproco della costante di struttura fine: potrebbe sembrare che Ugo in qualche modo abbia ragione, ovvero che nell’orbita fondamentale ci sono proprio 137 cicli ondulatori completi e che quindi possa essere proprio quello il significato profondo della costante di struttura fine. Ma non è così. Prima di tutto il modello di Bohr, detto semiclassico è solo un’approssimazione della realtà, poi non è sull’onda Compton dell’elettrone che occorre fare i conti ma sull’onda di de Broglie, la cui lunghezza è una grandezza relativistica, cioè varia in funzione dell’osservatore inerziale. Comunque la questione mi permise di ragionarci su in termini di Bridge Theory e applicando il metodo delle sorgenti al sistema elettrone – ione atomico ottenni qualche risultato interessante.

Considerando il problema della formazione di un atomo mediante il processo di cattura elettronica da parte di uno ione, mi accorsi che il fattore beta di un elettrone catturato da uno ione è effettivamente proporzionale alla costante di struttura fine. In particolare è uguale alla costante di struttura fine moltiplicata per il rapporto tra carica residua dello ione e numero delle volte che l’energia scambiata tra ione ed elettrone è multipla dell’energia caratteristica della sorgente elettromagnetica prodotta, cioè dell'energia del fotone localizzato durante l’interazione. Nel caso particolare di un atomo di idrogeno nello stato fondamentale, la velocità orbitale dell’elettrone risultava essere proprio la costante di struttura fine come Ugo aveva predetto. Una verifica teorica della bontà di questo risultato, si poteva avere però solo confrontando i valori spettrali simulati tramite il modello atomico ottenuto, con in dati sperimentali. Con Giuseppe Basile, esaminammo e confrontammo i risultati ottenuti con spettri atomici di ioni e atomi neutri relativamente a differenti numeri atomici. In ogni caso esaminato, senza dover introdurre alcun correttivo, i risultati erano in ottimo accordo con le misure sperimentali. Nel 2006, se pur brevemente, comunicammo i risultati al congresso della Società Italiana di Fisica [1]. Silenziosamente, senza battere ciglio, la platea ascoltò. (mercoledì prossimo le conclusioni)


Massimo Auci

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Bibliografia
(1) M.Auci, G.Basile, U.Fabbri. Congresso SIF 2006,“Fundamentality of the Sommerfeld’s fine-structure constant in bridge theory and consequences on the atomic model.”




GIA PUBBLICATI
1. - Introduzione
2. -
La frontiera
3. -
La sorgente reale: il modello
4. -
L'origine della quantizzazione
5. -
La costanti di Planck e di struttura fine
6. -
Il principio di indeterminazione
7. -
"Bridge Theory": l'inizio. Un ponte tra determinismo e indeterminismo

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