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QUESTIONE DI STILE: IL CATTIVO ESEMPIO CHE ARRIVA DAL CAMPO

A cura di Giovanni Firera   

Nel mondo dello sport, e soprattutto nel tennis, le immagini contano quanto le parole. Parlano da sole, raccontano valori, trasmettono modelli. Ed è per questo che il confronto tra due modi opposti di celebrare una vittoria diventa oggi un argomento che va oltre la semplice cronaca sportiva.

Da un lato, un atleta che esprime la gioia con compostezza, equilibrio, misura. Dall’altro, un gesto di esultanza plateale, fatto di strappi, muscoli tesi, teatralità urlata. Due fotografie, due linguaggi, due insegnamenti diversi per migliaia di giovani che osservano, imitano, apprendono.


Perché il punto centrale è proprio questo: lo sport, soprattutto quello seguito dai ragazzi, è un veicolo educativo potente. Chi scende in campo non rappresenta soltanto sé stesso, ma diventa – volente o nolente – riferimento culturale.

Nel tennis, disciplina che storicamente si fonda sul rispetto dell’avversario, sull’autocontrollo, sulla misura, il modo in cui si vive il momento della vittoria ha sempre avuto un significato profondo. È il momento in cui si rivela la vera educazione sportiva.

L’immagine composta trasmette un messaggio chiaro: si può vincere senza trasformare il campo in un palcoscenico, si può gioire senza esagerare, si può essere campioni senza calcare il piede della spettacolarizzazione. È un esempio che parla di disciplina, di umiltà, di rispetto del luogo e del gioco. È un messaggio che rassicura allenatori, genitori e scuole tennis: il successo non richiede la perdita del controllo.

L’altra immagine invece racconta l’opposto: la celebrazione scenica, aggressiva, sovradimensionata. Il gesto di strappare la maglia, tipico di sport più impulsivi e meno regolati dal codice non scritto dell’eleganza sportiva, diventa qui un segnale rischioso. Perché equivale a dire ai giovani che per essere visti bisogna eccedere, che la teatralità vale più della tecnica, che la scena vale più del silenzio, che l’urlo conta più della racchetta. E questo, in una fase storica in cui i social alimentano esibizionismo e ricerca compulsiva di attenzione, è un insegnamento pericoloso.

Non si tratta di soffocare l’emozione, né di negare la bellezza della vittoria. Si tratta di ricordare che il tennis è anche formazione morale. Gli adolescenti che entrano oggi nei circoli e imparano diritto e rovescio imparano, insieme, postura, rispetto, linguaggio corporeo, gestione delle emozioni. Se il messaggio che arriva dall’alto è che la gioia deve trasformarsi in spettacolo muscolare, l’effetto educativo si capovolge.

Ecco perché la questione non riguarda solo lo sport, ma la cultura. Perché le immagini diventano simboli. Perché un gesto compiuto in diretta nazionale non resta confinato a un campo, ma si moltiplica negli smartphone, nei meme, nelle imitazioni inconsapevoli. E perché l’Italia tennistica sta vivendo un momento storico di crescita e di passione popolare: proprio ora sarebbe fondamentale custodire l’identità elegante della disciplina.

Ai giovani bisogna dire chiaramente che l’autocontrollo non spegne la felicità, la nobilita. Che la compostezza non riduce la gioia, la amplifica. Che il vero campione non è chi esagera, ma chi ispira. Il tennis italiano ha bisogno di continuare a insegnare questo, non il contrario.

Giovanni Firera  

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