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LA RESILIENZA E LA TERAPIA DEL LUTTO




Si potrebbe definire la Resilienza come la capacità di superare un evento emotivamente stressante, o di riprendere la funzionalità che avevamo prima dell’evento in breve tempo.

Questo non significa che un evento usualmente traumatico ci possa lasciare indifferenti, ma che l’esperienza emotiva ad esso connesso viene superata “naturalmente”, grazie a fattori biologici come sostanze che riducono gli effetti del cortisolo (ormone prodotto dall’ipotalamo in situazioni di stress), psicologici e sociali.

Un esempio opposto, cioè di fallimento della resilienza, è noto come Disturbo post traumatico da stress.
Capire come funziona la resilienza può essere molto utile per aiutare le persone quando questo meccanismo si inceppa.

Nel libro Uscire dal lutto, la Schuetzenberger ci offre l’interessante tabella redatta dallo psichiatra A. Meyer (il fondatore del termine Igiene Mentale ancora usato oggi): un elenco degli eventi stressanti a cui viene attribuito un punteggio. Più è alto il punteggio, più l’evento è stressante. Colpisce che tra i dieci eventi in cima all’elenco, otto siano delle perdite (lutti, separazione, licenziamento e pensionamento).

Sul numero di maggio 2011 de Le Scienze si legge che i soldi spesi per interventi volti a rendere i soldati maggiormente resilienti, sono serviti a poco e talvolta sono stati controproducenti.
Sembrano invece più efficaci i protocolli di intervento post trauma, che hanno lo scopo di fornire supporto materiale e psicologico a vittime di disastri.

Ma se ciò che ci capita non si tratta di un disastro, ma di un lutto cosa si può fare?
Sono molti gli studi sul lutto. Su cos’è, quanti tipi ne esistano, come si manifesti ecc.
Diventa molto difficile invece trovare dei testi su come uscirne e soprattutto come si possa misurare se si è, o non si è più in lutto.

In breve, alcune premesse per capire di cosa si parla.

Il lutto è il processo di adattamento e di elaborazione del dolore da parte di un individuo allo stress provocato da una perdita significativa. Può essere una separazione da un oggetto amato, la perdita del lavoro, dover traslocare, la morte di qualcuno.

Esistono diversi tipi di lutto: anticipatorio, normale, ritardato, cronico, mascherato, patologico. Per il fine di questo articolo definirò quello normale e quello patologico.

Il lutto normale si ha quando si attraversano le fasi di elaborazione descritte dalla Kuebler Ross, quando le emozioni provate in seguito alla perdita si attenuano gradualmente, o per dirla alla Freud, quando si disinveste la libido dall’oggetto perduto e la si reinveste su altro.

Nel lutto patologico le paure suscitate dalla perdita diventano fobie, la tristezza diventa disperazione e col tempo invece di attenuarsi si accentua sempre più, si ha la sensazione di non riuscire a uscirne da soli, il rischio di suicidio è alto.

Una volta che si è determinato se la persona sta facendo un’esperienza di lutto non “normale” per la perdita di una persona significativa, come si può procedere per aiutarla?
Due testi ci possono venire in soccorso. Da essi si evince che: innanzitutto si devono valutare i fattori che incidono sull’elaborazione, ovvero: le cause di morte (per esempio se è stata attesa o inattesa), il rapporto col defunto (quale era l’intensità del coinvolgimento emotivo), risorse esterne e interne (poter ricevere supporto dal proprio ambiente di vita e aver già superato altre perdite), se possiede oggetti di collegamento (oggetti che ricordino il defunto e mantengano in vita il legame con esso). In particolare è necessario sapere come sono state vissute le prime ore dopo il decesso, in quanto esse sono prognostiche rispetto all’evoluzione del lutto.

Non vanno a favore l’assunzione di psicofarmaci o l’aver dovuto effettuare un ricovero e anche il non aver potuto vedere il defunto in volto, se lo si desiderava.
Questi eventi hanno un effetto prognostico negativo in quanto l’uso di psicofarmaci impedisce di vivere le emozioni della perdita, l’aver fatto un ricovero indica la scarsità di capacità ad affrontare la perdita e il non vedere il volto del defunto fa inconsciamente illudere la persona che non ci sia realmente il proprio caro in quella bara.

Non importa quanto il corpo possa essere martoriato, se la persona desidera vederlo è bene che lo veda. La vista del defunto non sostituirà il ricordo di come era quand’era in vita, ma rassicurerà chi rimane sulla realtà della sua morte.
Fatto ciò, il terapeuta si appresterà ad accompagnare la persona attraverso il processo di elaborazione e superamento del lutto.

Dr.ssa Luigina Pugno

Bibliografia:



6 commenti

Paolo Pascucci ha detto...

L'argomento mi interessa particolarmente, anche per una vicenda personale che mi coinvolge. Soprattutto con riguardo alle strategie di coping messe in atto per elaborare e gestire il dolore della perdita. In questo senso possiamo dire che, in effetti, possono esistere strumenti in grado di modificare andamenti troppo patologici nella gestione del lutto. Uno di questi strumenti è la fede o esperienza spirituale in genere. Questa capacità che hanno il trascendente e l'escatologico di mediare una gestione non distruttiva della perdita si riversa, il più delle volte, anche nell'elaborazione di altre realtà e rende conto della resistenza del credente di fronte a ogni tentativo di spiegazione razionale della religione.

Luigina Pugno ha detto...

Sono completamente d'accordo.
Avere fede che ci sia qualcosa oltre la morte (che sia il paradiso o la reincarnazione o altro) e che non finisca tutto con essa aumenta la resilienza.
Quando avevano fatto ricerche per capire come le persone avessero potuto superare l'esperienza traumatica dei campi di concentramento, avevano scoperto che era risultato più facile a chi era credente.

Paolo Pascucci ha detto...

Questo aspetto è notevolmente interessante anche per la convivenza, spesso pacifica, di razionalità e fede, soprattutto in quelle occasioni nelle quali la "logica" della perdita viene meno. E' particolarmente interessante rilevare come i due aspetti, quello affettivo e quello razionale, siano stimolati in misura così diseguale. Noto che il dolore della perdita è continuamente alimentato dal contributo della ragione, la quale si interroga appunto sulle "ragioni" dei fatti luttuosi. E' in questo ambito che interviene spesso la religione, in quanto fornitrice di una spiegazione razionale, anche se non accettata universalmente. Il silenziamento parziale della coscienza verbale contribuisce ad attutire gli effetti emotivi della perdita. Insomma, la religione come una terapia cognitiva ante litteram.
Ricordo della letteratura in merito riguardante scolaresche israeliane nelle quali, parlare anticipatamente agli scolari delle elementari dei possibili bombardamenti, consentiva un recupero più veloce dallo stress delle azioni di guerra rispetto ai controlli. E la morte è sempre presente nei discorsi della religione.

Luigina Pugno ha detto...

di qualunque religione.

Eulab Consulting ha detto...

Su questo tema, segnaliamo il numero 1 della newsletter Knowledge Addiction di Eulab Consulting, dedicato al tema della resilienza.

http://www.eulabconsulting.it/index.php?option=com_content&view=article&id=96:newsletter01&catid=38:cat-newsletter&Itemid=60

Luigina Pugno ha detto...

Quello che fa di una persona una persona resiliente non è solo il superamento delle crisi, ma anche la velocità con cui si supera la crisi.